Riflessioni sui cinquant'anni della Galleria Blu di Luca Palazzoli
Questo testo raccoglie le mie riflessioni su cinquant’anni di
attività della Galleria Blu e in particolar modo sui cambiamenti che il
mondo dell’arte e delle gallerie hanno vissuto e sulla linea di
coerenza che ha accompagnato le nostre scelte. Sono entrato in questo
microuniverso nella prima metà degli anni ‘60, in un clima conviviale
oggi impensabile. La passione artistica fece di mio padre un gallerista
nel 1957 portandolo a realizzare in via Andegari un luogo d’incontro e
condivisione dedicato ai pochi collezionisti, critici e artisti che
come lui erano interessati alle opere della contemporaneità e delle
avanguardie del ‘900. I “soci della Blu”, cioè i suoi frequentatori, si
conoscevano tutti ed era questo che permetteva quel tipo di
convivialità, che trovava la sua migliore espressione in occasione
delle inaugurazioni, di cui tanto si parla nelle cronache dell’epoca.
In quel periodo, dovendo ancora nascere l’aspetto mercantile,
mio
padre
interpretava come compito della galleria il rendere visibili quelle
opere del passato e dell’attualità sconosciute al grosso pubblico; il
successo della nostra attività veniva così affidato alla capacità delle
opere esposte di far nascere un dibattito tra quelli che allora erano
chiamati gli “addetti ai lavori”. Questa situazione economicamente
disinteressata rendeva i collezionisti e i galleristi dei mecenati. A
titolo emblematico ricordo quando nel 1959, essendo stata allestita una
mostra di capolavori di Balla senza alcun successo di vendita, fu
superato l’imbarazzo nei confronti degli eredi dell’artista acquistando
tutta la mostra, facendo così risultare un gran successo di vendite. Un
altro segno di quei tempi, e sto parlando dei primi anni ’60, emerge
dalla raccolta di recensioni di mostre di Fontana e Burri, nelle quali
venivano denigrati non solo gli artisti, ma anche l’intelligenza di chi
era disponibile ad apprezzare le loro opere.
La contemporaneità allora
non veniva considerata immediatamente “arte”: rimaneva in un limbo
sperimentale in attesa che il trascorrere del tempo, spazzando via i
non valori, consegnasse alla memoria collettiva le opere degne di
essere conservate. Quest’ultima era la funzione che lo spirito del
tempo assegnava all’attività, anche espositiva, dei musei. Indice del
clima di allora era anche l’autosovvenzionamento da parte delle riviste
d’arte italiane. Una per tutte va citata la rivista NAC, costruita
numero per numero da un direttore di filiale di banca che non
dimenticheremo mai: Francesco Vincitorio. Mi sembrerebbe anche
un’omissione non ricordare il debito che il mondo dell’arte ha nei
confronti del grande editore Vanni Scheiwiller: ricercatore della
verità, testimone della “poesia” e soprattutto uomo di straordinarie
qualità. Insomma tutti gli ambiti, dalla rivista alla pubblicazione,
dalla collezione alla galleria, dall’artista al critico e al museo,
erano pervasi dalla passione e dalla convinzione che l’opera d’arte
fosse il bene più prezioso che l’umanità possiede.
Questi ricordi non
sono soltanto espressioni nostalgiche, ma semplici testimonianze che ci
parlano di come la natura umana con grande spontaneità interpreti quei
valori immutabili dell’arte che ancora oggi vanno di volta in volta,
anche se con maggior fatica, riscoperti in opere formalmente diverse
nel loro adeguarsi ai vari cambiamenti culturali.
Negli anni successivi si arrivò progressivamente a identificare l’opera
d’arte non solo come bene di godimento, ma anche come bene rifugio e di
investimento. Noi galleristi ci trovammo così a dover aggiungere alla
passione anche la responsabilità dell’impresa. Il continuo lievitare
dei prezzi fece diventare l’aspetto finanziario talmente dominante da
doverci confrontare con considerazioni simili a quelle del mondo
borsistico. Gli ingenti capitali circolanti all’interno del nostro
settore, sempre più in crescita, favorirono operazioni di tipo
speculativo. In un mercato dell’arte che stava diventando sempre più
globalizzato, non trattare opere come se fossero titoli da scegliere
sulla base della loro prospettiva di crescita economica poteva venir
considerato un atteggiamento snobistico e anacronistico. Questo
fenomeno nato nei primi anni ’80 diventò sempre più condizionante.
L’ipertrofia speculativa della fine di quel decennio è forse
uno dei
presupposti che ha portato alla rarefazione delle aggregazioni di
artisti e dei movimenti; il rialzo esponenziale dei prezzi favorì
progressivamente lo svilupparsi di un ambiente in cui si evidenziavano
due realtà artistiche molto diverse per modi di espressione e funzioni
a cui assolvere. Da una parte stavano degli artisti che vivevano una
realtà di profonda solitudine creativa e, dall’altra, veniva a
configurarsi un mondo favorito dalle ambizioni finanziarie di milioni
di persone interessate più alla quotazione delle opere che alla loro
fisionomia di oggetto di godimento. Il territorio marginale in cui sono
nati i nostri primi incontri con opere e relativi autori che ci hanno
fatto innamorare sembrava dovesse essere sostituito da questa nuova
realtà in cui la creazione di musei d’arte contemporanea tende a fare
proprio il giudizio di qualità che, ne sono sempre più convinto, solo
il passare del tempo è in grado di stabilire attendibilmente.
L’evolversi di questa situazione fa sì che oggi ci si trovi di
fronte a
una quantità tale di tipologie di manufatti considerati “opere d’arte”
che viene da chiedersi quale possa essere il significato di un termine
diventato così estensivo. Questa difficoltà si è risolta in una sempre
più faticosa ricerca di artisti e di opere che con le loro
individualità corrispondano al significato che noi della Galleria Blu
diamo al termine “opera d’arte”: affinità elettive più da scovare che
da trovare, perché una ricerca condotta in solitudine comporta
l’appartarsi. Il dare visibilità alle nostre affinità elettive non ci
ha impedito in questi anni di fornire costantemente al nostro pubblico
informazioni su linee di sperimentazioni che, secondo noi, hanno
aperto, o possono aprire, nuove prospettive nell’orizzonte di quella
complessa realtà che viene di volta in volta identificata col mondo
dell’arte.
Noi da tre generazioni continuiamo a condividere la visione di
chi
crede nell’indispensabilità dell’arte come strumento per far crescere
nell’uomo una memoria di sé stesso, capace di porlo non tanto come
spettatore di eventi, quanto come scrutatore delle realtà più profonde
che da sempre lo accompagnano. È questa visione che ci ha predisposti e
continua a predisporci a stabilire esclusive di lavoro e a trattare
opere che ci offrono forti emozioni e la possibilità di riconoscerci in
esse. Non sto parlando di pratiche interpretative, ma del fulmineo
rapporto tra individuo e opera: una scintilla fecondativa che prescinde
dai significati accreditati dalle autorità critiche. È in questo
immediato e esclusivo riconoscimento che secondo noi si realizza il
senso dell’opera d’arte; un evento che noi sentiamo fisicamente ed
emotivamente e che non può essere descritto razionalmente. A nostro
avviso, è la qualità del senso che fa di un manufatto un’opera d’arte.
È l’insieme di queste opere a documentare la “storia dell’uomo”.
Questa visione “classica”, che ci parla della profondità dell’essere
umano, ha influenzato fortemente le scelte che hanno creato la
fisionomia della nostra attività all’interno di quello che attualmente
è definito il “sistema dell’arte”.
Questa selezione è stata ed è un
aspetto gratificante della nostra attività poiché molto spesso il tempo
ci ha dato ragione. Infatti le esclusive con le personalità artistiche
a noi più corrispondenti erano state stabilite molto tempo prima che il
loro lavoro arrivasse a godere delle attenzioni della critica e del
mercato. Per questo qualcuno potrebbe definirci una “galleria
d’attesa”.
Oggi la Blu, pur evitando di farsi carico in blocco dell’attualità,
pensa di essere riuscita a trovare all’interno di essa artisti che con
le loro sperimentazioni hanno raggiunto quella sensibilità in linea con
la propria storia che può essere definita il suo “filo blu”.
Luca Palazzoli